Fotografia povera è non tanto un atto concreto, ma un’attitudine.
Significa aprire le porte, le finestre di casa e guardare giù.
Procedere per
cerchi concentrici, iniziando dal luogo in cui si vive, dal proprio quartiere,
per poi allargare il raggio alla città intera, alla regione, e oltre.
È il modo
in cui guardiamo al mondo e agli esseri umani, la cura che si mette in ciò che
si fa, che vale davvero.
Si situa qui, la fotografia povera, da qualche parte
fra l’anima, il cuore e l’istinto.
Ed è “povera” perché controtempo, forse
fuori moda, ma forte abbastanza da andare con le proprie gambe.
Non guarda
all’ultimo modello di macchina fotografica, alla lente più performante, ma è
impegnata a guardare tutto ciò che l’occhio e i sensi possono afferrare, a
colmare un vuoto, calmare un dolore, farsi amico dei demoni che ognuno di noi
ha dentro.
È onesta perché profondamente nostra.
La cosiddetta “marginalità”
non deve costituire un problema, È, anzi, la possibilità di essere
indipendenti, di non aderire ad alcuna corrente o moda, di non accomodarsi
trasformandosi in chi non si è.
Francesco Faraci (Anima nomade. Da Pasolini alla fotografia povera, 2022)